Giuditta decapita Oloferne: stupro e stato dell’arte
Oggi, un paio di settimane dopo il 25 novembre – Giornata internazionale contro la violenza sulle donne – vi parliamo di stupro. E lo facciamo partendo da un quadro che abbiamo potuto ammirare agli Uffizi di Firenze, ovvero Giuditta e Oloferne, opera della pittrice romana Artemisia Gentileschi.
ATTENZIONE: questo è un articolo un po’ particolare. Dopo una prima parte dedicata ad Artemisia Gentileschi e al suo dipinto più famoso, approfondiremo il significato e la storia dello stupro.
“Giuditta e Oloferne” di Artemisia Gentileschi
(1620 ca., olio su tela, 199 x 162,5 cm)
DESCRIZIONE
Giuditta, all’interno della camera di Oloferne, decapita il generale assiro aiutata dalla sua ancella. Oloferne, ebbro dopo il banchetto, è disteso nudo sul letto in attesa di Giuditta che ha acconsentito a giacere con lui. La donna invece, afferrata la spada del generale, gli taglia la gola con un colpo netto mentre la sua serva blocca le braccia del soldato. Oloferne giace di traverso sul letto, con il capo verso la superficie del piano pittorico mentre Giuditta si trova in piedi, a destra. La donna infierisce sulla gola di Oloferne con una daga fermamente impugnata nella mano destra mentre con la sinistra afferra i capelli dell’uomo. Il soldato apre gli occhi spaventato e non ha il tempo di reagire. Un violento schizzo di sangue si proietta verso Giuditta mentre sul letto colano dei rivoli che arrossano i teli. Sul volto della donna si coglie un’espressione di soddisfazione mista allo sforzo compiuto per tenere fermo il generale. La serva, infine, pare determinata e il suo volto non rivela alcuna emozione. La scena è avvolta dal buio profondo. Affascina l’uso del colore rosso del sangue e delle vesti di Oloferne, che incrementa la violenza della scena.
I richiami a Caravaggio in quest’opera sono evidenti, a partire dai fondi scuri e dalle figure umane che poi emergono dal buio grazie ad una luce calda e radente che mette in evidenza in modo drammatico e spettacolare la decapitazione.
Abbiamo scelto di parlavi di questo quadro, oltre che per la sua atroce bellezza mozzafiato, per la storia personale della pittrice e per il significato di rivalsa sulla prepotenza e violenza maschile che si può attribuire all’opera, della quale infatti colpisce in particolare la brutalità del gesto rappresentato, quasi come se la pittrice volesse vendicarsi personalmente contro Oloferne… Conoscendo la vita di Artemisia Gentileschi, non è difficile indovinare chi potesse immaginare al posto di Oloferne: Agostino Tassi, il maestro (nonché amico del padre) che la stuprò.
LA PITTRICE
Artemisia Gentileschi nacque a Roma nel 1593. Figlia di un noto pittore di ispirazione caravaggesca, fin da piccola dimostrò un talento naturale per la pittura, talento che il padre seppe incoraggiare e guidare. Immersa nella vibrante cultura romana del tempo, Artemisia assorbì tutto il possibile dagli artisti che la circondavo – pur essendo limitata nelle frequentazioni in quanto femmina – e in particolare rimase affascinata dalle opere caravaggesche, che ebbero un forte impatto sul suo stile. Nel 1608-1609 il rapporto tra Artemisia e il padre si trasformò da un discepolato a una vera e propria collaborazione.
Nel 1611 Artemisia venne affidata alla guida artistica di un amico del padre, Agostino Tassi. L’uomo, dopo diversi approcci rifiutati, quello stesso anno violentò l’allieva, approfittando di una momentanea assenza del padre da casa. Dopo il reato, Tassi cercò di placare la ragazza (e il padre, prontamente avvisato) con una promessa di matrimonio. Quando, un anno dopo, Artemisia scoprì che in realtà il suo stupratore era già sposato, la famiglia Gentileschi decise di sporgere denuncia. Il processo fu lungo e tortuoso: numerosi testimoni mentirono per proteggere l’amico Tassi; Artemisia fu esposta al pubblico ludibrio, nonché torturata (rischiarono di spezzarle le dita, suo fondamentale strumento di lavoro) per verificare la veridicità delle sue accuse. Alla fine Tassi fu riconosciuto colpevole, anche se non scontò mai la pena imposta (esilio da Roma). La reputazione della pittrice fu invece gravemente danneggiata.
Trasferitasi a Firenze dopo un matrimonio di convenienza, nella città toscana Artemisia Gentileschi ebbe finalmente la possibilità di mettere in gioco tutto il suo talento (e di vederlo riconosciuto).
Proprio negli Uffizi di Firenze è conservato uno dei quadri più emblematici della Gentileschi, ovvero il sopradescritto Giuditta e Oloferne.
STUPRO: STORIA E SIGNIFICATO DI UNA VIOLENZA
Dal caso di Artemisia Gentileschi, dalla sua sofferenza, dalla sua umiliazione e dal suo coraggio, sono passati più di quattrocento anni… eppure nelle storie delle survivors di oggi alcuni elementi sono ancora gli stessi, tantoché il termine cultura dello stupro (rape culture) viene impiegato appositamente per designare un clima sociale e culturale che ancora non è riuscito (e forse nemmeno ha voluto) sradicare questa pratica – e anzi in parte sembra, se non incentivarla, quantomeno sminuirne la gravità.
Partiamo dal principio, ovvero dal significato del termine stesso: lo stupro per il dizionario Treccani è “atto di congiungimento carnale imposto con la violenza”. Questa definizione tralascia, ovviamente, la portata e la valenza culturale di questo atto, connotazione che però viene ben evocata da un particolare impiego del termine da parte di Dante: la gravità di questa parola è tale che il poeta la usò nella Divina Commedia per riferirsi al tradimento degli angeli ribelli contro Dio.
Nella nostra contemporaneità il termine stupro sembra essere stato sdoganato, entrando nell’uso comune in più situazioni: lo stupro viene troppo spesso inteso come goliardata (scherzo, gioco, una bravata di poco conto), sminuendone la violenza, il dolore, la drammaticità e l’illegalità, o impiegato appositamente come “valido” mezzo rieducativo/punitivo nei confronti di donne libere o in posizione di potere. Su questa questione ha prodotto un’ottima riflessione Carlotta Vagnoli, riflessione che vi parafraso qui di seguito.
L’atto dello stupro esiste dagli albori della società, nello specifico è stata – e in alcuni posti ancora è – usanza del popolo vincitore di una guerra quella di violentare le donne dei popoli vinti e affermare così la propria supremazia. Lo stupro delle donne aveva una funzione esemplare, serviva per terrorizzare gli altri, per assoggettarli ed educarli con la forza. Lo stupro non ha a che fare con il sesso, non deriva mai da una voglia di piacere, bensì è un atto di forza, mai dettato dalla sessualità. Non si stupra una donna perché “si ha voglia di scopare”, bensì si stupra una donna per affermare il proprio potere, si stupra una donna perché quest’ultima in qualche modo non vuole piegarsi e farsi sottomettere. Si stupra una donna perché sia chiaro a lei (e in alcune situazioni anche agli altri) chi comanda. Lo stupro è oggi un’aberrazione comportamentale che deriva dall’incapacità di accettare una figura femminile che si oppone, che si nega, che non si piega. In poche parole: una figura femminile che dice “no”, poco importa a cosa. Quest’uso del termine è particolarmente evidente negli insulti e nelle minacce che vengono rivolti a donne “in posizione di potere”. Sono stati augurati stupri a Carola Rackete, a Laura Boldrini, a Greta Thumberg e perfino a Giorgia Meloni. Alla prima perché troppo ribelle, alla seconda perché troppo pignola, alla terza perché combattiva. Il caso di Giorgia Meloni suggerisce poi che lo stupro come atto punitivo non ha confini di parti politiche, bensì è figlio in toto di una cultura patriarcale e maschilista che non può accettare l’autoderminazione delle donne (perché, che piaccia o no, Giorgia Meloni la sua voce la fa sentire). Augurare lo stupro a queste donne, pare voler dire: “Hai voluto decidere per te stessa? Adesso la paghi.” Insomma, pur essendo diventata la violenza di genere un argomento alquanto presente all’opinione pubblica, abbiamo perso la gravità del termine stupro. L’augurio di Carlotta Vagnoli, e anche il nostro, è che si inizi subito a pesare le parole che usiamo. Dobbiamo definire e riconoscere i limiti, per imparare a non superarli.
Giusto per motivare coi dati l’affermazione che “lo stupro è ancora drammaticamente presente nella nostra società”, vi riporto qualche statistica.
Nell’Unione Europea il 22% delle donne (1 su 5) ha dichiarato di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale; il dato italiano è ben peggiore: nel nostro caso 1 donna su 3 (tra i 16 e i 70 anni) ha subito una violenza di questo tipo. Questo implica che su 60 milioni di italiani, quasi 7 milioni di donne sono state vittime di violenza. Oltre un milione di queste donne hanno dichiarato di aver subito le forme più gravi della violenza sessuale, come lo stupro e il tentato stupro. Nell’ultimo decennio sono stati 48.377 i reati dichiarati di violenza sessuale (è probabile che ce ne siano stati molti altri che, però, non sono stati denunciati) e in oltre il 90% dei casi la vittima era una donna. In un numero consistente di casi, lo stupratore è il partner o l’ex partner.
Vi siete mai chiesti perché ancora oggi fatichiamo molto a credere alle vittime di stupro? E perché ancora oggi lo stupro non viene legalmente perseguito come dovrebbe? Vi sorprenderà (ma io non credo) forse sapere che per secoli le società occidentali hanno faticato molto a concepire la possibilità di violenza sessuale contro una donna, per il semplice fatto che alle donne è stata attribuita molta poca importanza, e molto poco credito si è dato alle loro parole. Nell’Ottocento le teorie della medicina reputavano che un uomo da solo non fosse tecnicamente in grado di usare violenza a una donna (la quale avrebbe avuto forza sufficiente nelle gambe da impedire a un solo uomo di aprigliele contro la sua volontà…). Uno stupro veniva quindi considerato tale solo se commesso da un gruppo di uomini contro una sola vittima. Fino a circa metà del secolo scorso, circolavano liberamente perfino teorie che vedevano le donne violentate come ninfomani con fantasie perverse.
In Italia l’articolo 544 del codice penale, rimasto in vigore fino al 1981, assolveva dall’accusa di stupro colui che accettava di sposare la vittima. Fece la storia la vicenda di Franca Viola, rapita e violentata nel dicembre del 1965 da un suo pretendente respinto che cercò poi di avvalersi del matrimonio riparatore; la donna rifiutò il compromesso, rompendo una “tradizione” lunga secoli e portando all’opinione pubblica la drammatica questione del matrimonio riparatore.
Come siamo messi ora? La percezione giudiziaria e pubblica dello stupro è cambiata molto dai tempi di Artemisia Gentileschi? Credo che le seguenti informazioni possano dipingere un quadro piuttosto esaustivo del rapporto tra sistema giudiziario occidentale e stupro.
Oggi, in Italia, sotto il nome di violenza sessuale l’art. 609-bis del codice penale punisce chi, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali; la pena prevista è la reclusione da 5 a 10 anni.
Una situazione degna di nota riguarda la Germania, Paese occidentale estremamente arretrato nella persecuzione della violenza sessuale: prima del 2016 la legge prevedeva che la prova della violenza sessuale fosse a carico della vittima, ed era necessario che questa si fosse opposta fisicamente all’aggressione, non solo verbalmente. E che fosse in grado di dimostrarlo in tribunale, altrimenti l’aggressore non sarebbe stato condannato. Le associazioni a tutela delle donne violentate riportano che fino al 2016 ogni anno in Germania venivano commessi in media 8.000 stupri, ma solo il 10% circa veniva denunciato, e che una sola denuncia su 10 portava a una condanna. La riforma conosciuta come No significa no ha finalmente introdotto il diniego verbale, rendendo così possibile la repressione degli stupri anche nel caso in cui la vittima non abbia lottato per difendersi.
In Gran Bretagna e Francia il consenso, invece, è sempre escluso se la persona che subisce la violenza è ubriaca, drogata o in stato di shock. Lo stupro nel Regno Unito è punito con un minimo di 5 anni di reclusione fino all’ergastolo, se ci sono aggravanti. In Francia la violenza sessuale è considerata un crimine contro la persona ed è punito con 15 anni di reclusione, con 20 anni se la vittima ha meno di 15 anni, se si tratta di stupro di gruppo o quando il movente è l’orientamento sessuale della vittima; 20 anni se comporta una mutilazione o l’invalidità della vittima o se avviene sotto la minaccia di un’arma.
Vi sembra che la situazione sia migliorata rispetto ai tempi di Artemisia Gentileschi? In parte sicuramente sì… ma non abbastanza. Non basta non subire torture fisiche o non essere obbligate a sposare uno stupratore per poter dire di aver fatto veri progressi. Non basta perché siamo una società che troppo spesso si riempie la bocca di parole come “parità” e “giustizia”, lasciando poi però questi concetti nel mondo dell’astrazione, senza impegnarsi concretamente per realizzarli. In questo periodo siamo stati segnati dal revenge porn contro una maestra di Torino e dal caso di stupro (a dir poco rivoltante) di Genovese: di queste vicende colpiscono l’ignoranza, la malafede e la cattiveria dei soggetti coinvolti nel primo, nonché il racconto mediale assolutamente traviato e traviante del secondo. Al che dobbiamo davvero porci una domanda: il problema l’abbiamo risolto? La rape culture è sparita? O ancora la stiamo alimentando?
In un prossimo post approfondiremo nei dettagli il rapporto tra violenza di genere e media, ovvero ci soffermeremo sul modo alquanto improprio (per non dire degradante, per non dire maschilista) con cui i media parlano di stupro, molestie e femminicidi. Vi chiedo nel frattempo di riflettere su quanto ci siamo detti oggi e di non far finta di niente. Vi invito anche ad andare a visitare il profilo Instagram di Carlotta Vagnoli, che affronta questa tematiche con ammirabile competenza.
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