RECENSIONE: Lettres persanes di Montesquieu
TITOLO: Lettere persiane (Lettres persanes)
AUTORE: Montesquieu
TRAMA:
Immaginate di essere due persiani che arrivano a Parigi nel corso di un viaggio alla scoperta della civiltà occidentale: nella Francia dell’assolutismo del Re Sole e della reggenza, ma anche di una crisi finanziaria senza precedenti. Attraverso la fitta corrispondenza che Usbek e il suo giovane amico Rica intrattengono con la Persia, prendono forma due intrecci narrativi – il serraglio di Usbek a Ispahan e il “serraglio” della società francese – accomunati dalle dinamiche visibili e invisibili del dispotismo. L’occhio inafferrabile e divertito di Montesquieu restituisce una realtà a più dimensioni in cui tutto coesiste e contrasta, con uno stile coltissimo e sapiente che spazia dalla satira di costume alla dissertazione storica e filosofica, al melodramma.
RECENSIONE
Come raccontare contraddizioni e problemi del proprio tempo senza prendersi la diretta responsabilità delle critiche mosse? Charles-Louis Secondat, barone di Montesquieu, trova la soluzione in una raccolta di lettere fintamente scritte da due uomini stranieri in visita alla Francia del Settecento.
I due stranieri sono Rica e Usbek: giovane, scherzoso e curioso del mondo il primo; più adulto e contraddittorio il secondo. I due si trovano immersi nell’universo parigino del tempo, con uno spazio e una società completamente diversi dalle loro origini. Se la diversità sembra divertire molto Rica, Usbek ne rimane invece turbato. Personalmente ho preferito di gran lunga Rica come guida tra le pagine, tra le usanze e i costumi europei, perché le sua considerazioni sulla Francia e sui francesi sono spesso ironiche, allegre, prende in giro gli abitanti del Paese con un sorrisone sulle labbra; non risparmia commenti pungenti o stupefatti, ma il suo tono pare sempre giocoso, non violento. Usbek, al contrario, incarna una forma di “egocentrismo” mascherato da cosmopolitismo di facciata: l’uomo si crede tollerante, aperto, un soggetto assai democratico… eppure in diverse situazioni e in molti giudizi mostra invece il suo lato despotico e in un certo senso arrogante. Perché arrogante? Perché, a mio parere, dietro ai suoi gesti si nasconde un senso di profonda superiorità: Usbek crede che gli altri – i diversi, i francesi – siano sbagliati e che lui – in quanto persiano – faccia tutto meglio.
Il punto di vista dei francesi in questa storia compare solo in modo indiretto, riportato dagli stessi Rica e Usbek. Non abbiamo, quindi, modo di sapere cosa abbiano detto o pensato davvero i francesi incontrati dai due viaggiatori nel corso del loro soggiorno. Poco ma sicuro il fascino persiano non ha lasciato indifferente nessuno: donne e uomini si sono fermati a guardare, osservare, chiedere, studiare le stravaganze dei nuovi arrivati – caratterizzati da abiti molto diversi da quelli in voga in Francia. Un commento di Rica mi ha colpita in particolare: a un certo punto il ragazzo, per provare a mimetizzarsi, si presenta in società senza i propri abiti tradizionali, vestendo invece “alla francese”… ed ecco che in men che non si dica nessuno si è più accorto di lui: è diventato un francese in mezzo ai francesi. L’episodio è significativo per cogliere come l’esteriorità sia rilevante nel determinare l’identità sociale di un individuo, nonché la sua appartenenza a o esclusione da un gruppo.
Le lettere della raccolta riportano conversazioni epistolari tra i due protagonisti e diversi loro amici, alcuni rimasti nella terra d’origine, altri sparsi per il mondo (in Grecia, in Italia…). Non tutte le lettere sono datate in perfetta sequenza temporale, forse per rappresentare alcuni probabili ritardi o smarrimenti di lettere da parte dei “corrieri”.
Nel testo sono presenti diverse sotto-trame, fili di storie che si sviluppano, riavvolgono e concludono (o meno) nel corso del viaggio. La più accattivante (e sicuramente la più esotica, quella che più porta profumo di Persia al lettore europeo) riguarda le vicende che si realizzano nell’harem di Usbek. L’uomo, infatti, ha lasciato le proprie mogli a casa, sorvegliate a vista dai severi eunuchi. In assenza del marito/padrone, che di solito tiene le proprie mogli in uno stato di schiavismo domestico, la situazione nell’harem diventa instabile… e il libro stesso termina con un colpo di scena inimmaginabile per lo stesso Usbek. È proprio attraverso le lettere dall’harem che noi lettori possiamo completare il ritratto di Usbek come uomo dispotico e – lo so, è scontato – assai maschilista: le sue donne sono la sua proprietà e, sebbene alcune di loro manifestino (almeno per iscritto) un comportamento affettuoso nei suoi confronti, lui al contrario rimane sempre freddo, si mostra in totale e ferreo controllo di ogni situazione e non vuole in alcun modo perdere il potere e il dominio che esercita sulle sue donne. Ahimé, le cose alla fine non vanno secondo i suoi piani.
Montesquieu approfitta di questo libro per accendere discussioni produttive sulla religione (sia Islam che cristianesimo sono coinvolte), sulle strutture sociali e sul potere politico in Francia e sulle possibili alternative. Sono molti i racconti, gli aneddoti, i miti che arricchiscono il testo. Molto suggestivo è il mito del popolo dei trogloditi, tramite il quale l’autore racconta il passaggio da uno stato di natura – pacifico, democratico, liberale e felice – a una condizione monarchica che priva il popolo delle proprie libertà, ma che si presenta come unica soluzione all’anarchia e ai soprusi provocati dal processo di “civilizzazione” e dalla crescita della popolazione. La concezione dello stato di natura che emerge da questo mito (sempre raccontato tramite lettere, di Usbek in questo caso) è palesemente opposta a quella di Hobbes, secondo cui lo stato di natura è “la guerra di tutti contro tutti”.
Il testo nel complesso non è dei più semplici (soprattutto se volete provare a cimentarvi, come ha fatto la sottoscritta, in una lettura in lingua originale), visti i numerosi riferimenti a elementi e personaggi storici, usi e costumi del tempo e sottili riflessioni sociali, culturali e filosofiche; tuttavia alcuni punti della raccolta sono davvero curiosi, altri affascinanti, alcuni invitano all’approfondimento e altri fanno scappare un sorriso. Consiglio Lettres persanes a chi ha voglia di prendersi il giusto tempo per leggere con cura ogni lettera, senza fretta, e – perché no? – magari anche per tornare indietro e rileggere, qualche volta.
Avete già letto questo libro? Cosa ne pensate? Vi ispira?