Questo libro riporta i risultati di un ricerca qualitativa condotta tramite interviste con madri che si definiscono “pentite”. Non credo abbia senso scrivere una vera e propria recensione di un saggio del genere, perciò mi limiterò a mettere in risalto alcuni punti che ritengo particolarmente rilevanti e che aiutano a riflettere sulla condizione di madre.
1. Le donne intervistate dalla sociologa Orna Donath sono pentite della maternità, non dei propri figli, ovvero: odiano lo stato di madri e preferirebbero non essere mai diventate madri, ma non odiano i propri figli. Può risultare difficile da comprendere, ma è importante. Per semplificare molto: vorrebbero che i figli non fossero mai nati e sarebbero contente se potessero farli sparire come per magia, ma non vorrebbero ucciderli. Non stiamo parlando di potenziali assassine, bensì di donne che non vogliono i figli che purtroppo hanno. […]
Nel 2019 la casa editrice Mondadori ha pubblicato Quello che abbiamo in testa, un romanzo in cui l’autrice di origini giordano-palestinesi Sumaya Abdel Qader racconta la storia di Horra, una donna musulmana velata che vive a Milano. La protagonista, parzialmente ispirata proprio alla biografia della sua autrice, combina nella quotidianità il lavoro presso uno studio di avvocati, la laurea in giurisprudenza, il volontariato con un’associazione che si occupa di donne, le uscite con le amiche e le relazioni familiari: la sua fede religiosa e il suo status di ‘straniera’ si intrecciano con tutti questi elementi, restituendo un quadro estremamente ricco sulla vita delle donne musulmane in Italia. Horra – nome che significa proprio “libera” – un giorno decide di rispondere a una giornalista che descrive le donne hijabi come vittime e oppresse, e lo fa con un post su Facebook nel quale parla del velo come di un gesto “ribelle e femminista”.
Le camere a gas non sono mai esistite; sei milioni di ebrei non sono mai morti – sono solo emigrati; il Diario di Anna Frank è un falso; l’Olocausto è un’invenzione dei sionisti. Queste sono alcune delle posizioni sostenute dagli autori “revisionisti” – come si descrivono loro – della Shoah. Per il resto del mondo sono semplicemente dei negazionisti (un po’ complottisti, perché dove c’è negazione il ricorso al complotto si rivela sempre necessario). Quest’anno per la Giornata della Memoria ho deciso di preparare un articolo un po’ diverso dal solito: non parleremo infatti di un romanzo a tema, bensì di un saggio – L’irritante questione delle camere a gas di Valentina Pisanty – e in particolare dei tentativi dei negazionisti di smontare la validità di un testo che ha fatto sia la Storia che la storia della letteratura… Sto parlando, chiaramente, de Il diario di Anna Frank. Il negazionista protagonista di questo articolo è Robert Faurisson, che si è cimentato nella (fallimentare) impresa di smentire in tutti i modi l’autenticità del diario in questione.
Poco più di un anno fa mi sono laureata in Scienze della Comunicazione con una tesi dal titolo Professionismo e stereotipi di genere nel book influencing femminile; nei mesi successivi alla laurea ho preparato e pubblicato dei brevi video in cui ho illustrato – ovviamente in modo riassuntivo – il contenuto dei singoli capitoli del mio elaborato: siamo partiti da un’introduzione sul web 2.0 e sulle opportunità di partecipazione democratica che offre – contrapposte però a un crescente caotico marasma di contenuti; abbiamo poi cercato di definire chi sono i gatekeeper e quale ruolo svolgono gli opinion leader, per poi declinare queste figure nei contemporanei influencer; la nostra attenzione infine si è focalizzata sui book influencer e sulla portata dei loro effetti all’interno del mercato editoriale. A distanza di un anno, non abbiamo ancora trattato l’ultimo argomento della tesi… ovvero la questione di genere.
[…] Nello stesso periodo ho, invece, visto i candidati delle altre liste in corsa per il mio comune (ma anche per altri paesi) e ho notato diversi nomi di giovani (e giovanissimi) che conoscevo. Ragazzi e ragazze che però non si erano mai attivati precedentemente per questioni politiche né sociali o civili. Addirittura ragazzi che, pur essendo in lista, non si sono mai pronunciati su alcun argomento perfino durante la stessa campagna elettorale. Insomma, sono stati dei fantasmi, nulla più di un nome su un foglio. Devo ammettere di aver apprezzato che la mia lista, dopo il mio rifiuto, non si sia messa disperatamente a cercare un “gggiovane” con cui sostituirmi, perché ai ragazzi e alle ragazze la politica deve dare spazio, ma non deve trasformarli in simboliche belle statuine da spendere solo in campagna elettorale… E dopo questa mia breve introduzione, passo la palla a Emme, che oggi vi spiega il fenomeno del tokenismo. […]
La serie tv Netflix narra – come credo ormai tutti sappiano, visto l’immediato successo riscosso dalla prima stagione, pubblicata sulla piattaforma a Natale – le vicende di Daphne Bridgerton, giovane donna alla ricerca di marito nell’Inghilterra della Reggenza.
Questa non sarà una vera e propria recensione, perché mi soffermerò solo su alcune questioni che in particolare hanno catturato la mia attenzione.
Prima tra tutte è l’innovativa quanto discussa decisione della produzione di affidare la rappresentazione a un cast multietnico – la storia originale da cui è tratta la serie tv, l’historical romance Bridgerton: The Duke and I di Julia Quinn, infatti è un romanzo “historical” classico, che non prova in alcun modo a stravolgere personaggi e ambienti storici a cui fa riferimento.
Di solito io sono una ferma sostenitrice del “realismo storico” nelle riproduzioni contemporanee, ovvero credo che attuare stravolgimenti storici in nome di un politicamente corretto estremizzato sia, in realtà, tutto tranne che politicamente corretto. Perché fare blackwashing è tanto grave quanto fare whitewashing e in particolar modo perché affidare “storie bianche” ad attori “non bianchi” non fa altro che continuare, implicitamente, a sostenere che solo le “storie bianche” sono degne di essere raccontate: sarebbe, insomma, per me molto più sensato dare rilievo anche a storie di personaggi storici di altra etnia.
Fatta questa doverosa promessa, mi sento però di ammettere che il cast multietnico di Bridgerton non mi ha causato nessuna irritazione da “rivisitazione storica”. Perché? Perché secondo me Bridgerton non prova in alcun modo a riscrivere la storia, non prova nemmeno per sbaglio a fingere di essere vero, o anche solo storicamente verosimile. […]
[…] A differenza di SVU, qui gli autori hanno mantenuto i personaggi fedeli a se stessi: i ragazzi di Voight sono bravi poliziotti, brave persone e negli scontri razzisti stanno sempre dalla parte di Atwater quando quest’ultimo ha ragione. Allo stesso tempo, però, ci tengono a ricordare sia a lui che a tutti gli spettatori che no, non tutti i poliziotti sono razzisti e che pensare il contrario è ugualmente ingiusto. Il pregiudizio è sempre sbagliato, in qualunque direzione punti. Nella puntata 8, Protect and Serve, un poliziotto bianco spara a un ragazzo nero senza alcuna valida ragione. Ruzek e Atwater hanno il compito di arrestare il poliziotto. Una serie di lunghe peripezie sono l’occasione perfetta per portare alla nostra attenzione tanti timori e tanta rabbia che i personaggi – e gli stessi spettatori americani, suppongo – si tenevano dentro: Ruzek può in qualche modo prendersi parte della colpa delle azioni di poliziotti bianchi e razzisti solo perché è bianco? La comunità nera può ritenere qualunque poliziotto bianco almeno in parte responsabile? E sono tutti razzisti? E uno come Ruzek – che, lo sa pure Atwater, poco ma sicuro non è razzista nemmeno un po’ – cosa dovrebbe fare per stare nel giusto? La colpa dei padri ricade sui figli? (O, in questo caso, forse è meglio dire: la colpa della nostra comunità ricade su ognuno di noi?). L’accesa discussione tra i due amici – Adam e Kevin – è sconvolgente al punto giusto, struggente, vera. […]
L’atto dello stupro esiste dagli albori della società, nello specifico è stata – e in alcuni posti ancora è – usanza del popolo vincitore di una guerra quella di violentare le donne dei popoli vinti e affermare così la propria supremazia. Lo stupro delle donne aveva una funzione esemplare, serviva per terrorizzare gli altri, per assoggettarli ed educarli con la forza. Lo stupro non ha a che fare con il sesso, non deriva mai da una voglia di piacere, bensì è un atto di forza, mai dettato dalla sessualità. Non si stupra una donna perché “si ha voglia di scopare”, bensì si stupra una donna per affermare il proprio potere, si stupra una donna perché quest’ultima in qualche modo non vuole piegarsi e farsi sottomettere. Si stupra una donna perché sia chiaro a lei (e in alcune situazioni anche agli altri) chi comanda. Lo stupro è oggi un’aberrazione comportamentale che deriva dall’incapacità di accettare una figura femminile che si oppone, che si nega, che non si piega. In poche parole: una figura femminile che dice “no”, poco importa a cosa.
[…] partiamo da una domanda: che cos’è la paura?
Tutti proviamo paura, nelle situazioni più disparate, tanto che a chiunque è capitato di aver avuto a che fare con questa emozione.
Tuttavia in pochi sanno dare una definizione precisa di paura; si tende a descriverla con le reazioni che provoca sul piano fisico oppure si tende a ricomprendere nella definizione concetti più articolati. Prima di avviare un discorso è bene creare una base comune legata ai significati da attribuire ai singoli termini – come viene fatto da qualunque disciplina, dalla filosofia alla fisica – ed è fondamentale per non fare confusione durante il discorso attribuendo a dei termini significati impropri o errati.
Dunque dobbiamo trovare una definizione comune di quest’emozione, e in questo la psicologia è sicuramente un valido alleato.
Innanzitutto la paura fa parte delle cosiddette emozioni primarie o di base, non esiste un’unica classificazione e a seconda del teorico ve ne sono diverse.
Le più note sono quelle individuate da Paul Ekman (la cui teoria è stata resa celebre dalla serie TV Lie to me, o anche dal film d’animazione Inside out).
Per Ekman esistono sei emozioni primarie (paura, rabbia, gioia, tristezza, disgusto e sorpresa), le quali sono espresse in modo innato e comune in tutti gli esseri umani. E dalle combinazioni di queste si hanno costrutti emozionali più complessi o emozioni secondarie (ad esempio la vergogna, la nostalgia, il rimorso).
Tra il 2016 e il 2019 sono usciti al cinema ben 11 film Marvel (Captain America, Doctor Strange, Guardiani della galassia vol.2, Spider-man: Homecoming, Thor: Ragnarok, Black Panther, Avangers: Infinity War, The Ant and the Wasp, Captain Marvel, Avengers: Endgame, Spider-man: Far from home), altri sei sono programmati tra quest’anno e il 2022 (poi vedremo se e come cambierà la programmazione a causa dell’imprevista emergenza Covid-19) e molti altri saranno realizzati negli anni a venire. Cosa voglio dirvi con questa lunga sfilza di titoli? Semplicemente che Hollywood vive di sequel – o, per meglio dire, di sequel, remake, rebook, prequel e spin off di ogni sorta. Se pensate che l’esempio MCU non sia sufficiente, posso sempre citarvi i live action della Disney, azienda che per ora ha fatto uscire 12 film di questa tipologia tra il 2010 e il 2019 e ne ha in programma almeno un’altra decina. Non credo tuttavia che questa notizia vi giunga nuova: vi sarete accorti anche voi, spero, di questa mania per il rifacimento e il prolungamento di storie già viste; mania che nell’ultimo decennio ha davvero preso il volo. Vi riporto un dato interessante: lo sapevate che dei cinquanta migliori incassi globali del lustro 2010-2015, solo tre pellicole non erano né l’inizio né il proseguimento di una saga? Si trattava di Interstellar (decimo nel 2014), Gravity (ottavo nel 2013) e Inception (quarto nel 2011). Per fare un confronto, dei primi cinquanta film per incasso del quinquennio ’00/’04, ben 17 rispondevano a questi parametri di “originalità”. Un numero che sale addirittura a 38 per il periodo ’90/’94. Insomma, Hollywood è davvero così priva di nuove idee?
Il mercato nelle società occidentali ha scoperto che, se da un lato le classiche immagini della casalinga, mamma e donna-oggetto cotinuano a far vendere, per comunicare con le nuove generazioni di donne emancipate bisogna “aggiustare il tiro”: è nato così il “femminismo che fa vendere”, il cosiddetto femvertising, una stile di pubblicità basato sul women empowerment, che mira a far emergere il potenziale femminile, portando le donne ad aumentare la stima di sè. Il femvertising è una sorta di femminismo pop, semplificato e colorato, non necessariamente negativo, ma molto spesso portatore di storture e contraddizioni: è, semplicemente, una versione leggera e apolitica di un movimento che in realtà è molto serio e molto politico; una versione “easy” capace di raggiungere un pubblico ben più vasto e con effetti disparati. Si tratta di uno dei tanti volti del postfemminismo: connesso al marketing, manifesta in maniera diretta ed esplicita l’intenzione di diffondere i principi avanzati dal femminismo storico. Figlia di questo sviluppo è la recente tendeza di esaltare il girl power nella moda, nella musica, nel cinema, in tv, nelle pubblicità. Perfino i social hanno seguito questa tendenza, infatti dal 2016 su Facebook sono disponibili alcune emoji che riconoscono i ruoli sempre più rilevanti e variegati che le donne svolgono nella società (donna poliziotto, donna surfista, donna avvocato…).
Womenomics (crasi tra women e economics) è un neologismo, diffuso nel 2006 dall’Economist, che definisce la teoria economica secondo la quale il lavoro delle donne è il più importante motore dello sviluppo mondiale.
Questo modello economico è stato teorizzato per la prima volta nel 1999 da Kathy Matsui, un’analista dell’istituto bancario Goldman Sachs, per dimostrare come il Giappone potesse uscire da una grave crisi economica e risolvere al contempo i propri problemi demografici. Si tratta di una teoria che potrebbe essere applicata anche all’Italia, visto che il nostro Paese soffre di ben noti problemi demografici e ha un’occupazione femminile inferiore al 50%.
L’aumento del tasso di occupazione femminile non risponde quindi solo a un principio di equità, ma anche a un principio di efficienza economica. Esiste infatti una correlazione positiva tra lavoro femminile e crescita economica, alla quale l’occupazione femminile può contribuire sia direttamente che indirettamente. Il lavoro delle donne interviene direttamente aumentando il valore del PIL tramite più ore lavorate e maggiore produttività. Inoltre le donne nel mercato del lavoro offrono nuovi talenti, competenze diverse e stili di lavoro innovativi, spesso complementari a quelli degli uomini. L’esperienza di molte imprese insegna che gruppi di lavoro misti sono più produttivi dei gruppi di lavoro composti da soli uomini o da sole donne. Il lavoro delle donne contribuisce anche indirettamente alla crescita economica facendo aumentare la domanda di servizi, come lavori domestici, asili, cura degli anziani: crea quindi occupazione addizionale.
Una ricerca di Goldman Sachs attesta che colmare il gap occupazionale di genere produrrebbe incrementi del PIL del 13% nell’Eurozona, del 22% in Italia.
Uguaglianza e differenza rappresentano le due anime del pensiero femminista, i due poli di riferimento tra cui oscillano le varie correnti a partire dal cosiddetto primo femminismo, cioè il movimento delle donne di fine Ottocento e inizio Novecento. Come è avvenuto per i concetti di sesso e genere (QUI il nostro articolo in merito), in una prima fase sono stati concepiti in maniera distinta e contrapposta, per poi essere considerati intrecciati tra loro e sfociare, per esempio, nel concetto di pari opportunità. Sono molte le correnti femministe che hanno cercato di superare l’impasse di questo nodo teorico, focalizzandosi sull’obiettivo della valorizzazione di ogni tipo di soggettività, che reclama riconoscimento sociale e diritti.
In estrema sintesi, si può affermare che chi abbraccia il modello della parità sostiene che donne e uomini siano essere umani uguali e che le donne, da secoli giudicate inferiori, per emergere dal loro status debbano emanciparsi, elevarsi a raggiungere l’uguaglianza formale con l’uomo, acquisendo gli stessi diritti per poter diventare esseri umani completi e partecipare a pieno all’ambito pubblico. Mentre chi propone il modello della differenza riconosce l’esistenza di una differenza tra uomini e donne che deve essere volta in positivo, valorizzata socialmente.
A partire dagli anni Ottanta, sia negli USA che in Europa, si assiste al tentativo di intrecciare i concetti di uguaglianza e differenza, per spezzare una visione dicotomica e una rigida contrapposizione tra loro. Il problema dibattuto da allora è diventato: come utilizzare le idee della differenza e battersi allo stesso tempo per l’uguaglianza.
Cosa si intende con il termine sesso? Il sesso è il risultato del corredo genetico di una persona, il risultato della combinazione tra i cromosomi X e Y: un bambino quando nasce viene riconosciuto come maschio o femmina a seconda dei genitali che presenta (esistono alcuni rari casi di intersessualità, ma rimaniamo sul semplice). Il sesso è quindi biologicamente determinato, naturale.
Cosa si intende con genere? Il genere è l’insieme di aspettative culturali socialmente costruite associate alle differenze fisiche, ovvero il genere è l’insieme di norme, comportamenti e ruoli che un individuo deve rispettare in relazione al suo sesso.
Nell’ambito della sociologia, della psicologia, dell’antropologia, della filosofia e della storia ci si è domandati se le differenze sociali tra uomini e donne (vedi la presunta superiorità maschile) dipendano da fattori biologici, naturali, inerenti alla diversa conformazione fisica e al diverso sistema riproduttivo (quindi dal sesso), oppure da una costruzione sociale, ovvero dai valori diffusi a livello culturale e dalle aspettative legate al ruolo sociale di uomini e donne in determinati periodi storici e contesti geografici, assimilati attraverso il processo di socializzazione (quindi dal genere).
Il 3 Aprile del 1973 Martin Cooper fece la sua prima telefonata da un dispositivo di telefonia mobile, fondamentalmente un mattone lego nero delle dimensioni di un tostapane (dell’epoca).
Da allora la telefonia mobile ha fatto passi da gigante, fino ad arrivare ai moderni smartphones. Tuttavia una delle innovazioni più grandi apportate dal sistema di telefonia mobile è stato il sistema di messaggistica inizialmente implementato nei telefoni cellulare tramite i messaggi SMS (Short Message Service).
Questa invenzione e l’inserimento nei sistemi dei telefoni cellulari ha, nel tempo, completamente modificato la comunicazione mediata. Non è però qui che vorrei discutere di questa invenzione e di tutte le conseguenze che ha portato (in oltre non avrei neanche le competenze per farlo). Vorrei invece soffermarmi ad analizzare quello che, di fatto, è stato un “effetto collaterale” della nascita degli SMS: la nascita delle emoticons.
«Quando me ne sono accorta era la fine di maggio 2019 e stavo facendo la doccia: ho sentito pallina sul seno destro», inizia così il racconto di Anna Maiorano, quarantenne residente a Treviglio, due figli. «Fino al giorno prima non c’era niente, ne sono quasi sicura… controllavo, e non c’era niente», aggiunge.
Prima di proseguire con la sua storia, Anna ci tiene a dare un consiglio a tutte le donne: «Controllate quotidianamente, l’autopalpazione è fondamentale; i controlli annuali, per quanto importanti, non bastano. Dobbiamo essere consapevoli del nostro corpo e andare dal medico se abbiamo dei dubbi. Meglio rompere le palle che cadere dal pero».
Pochi giorni dopo i primi esami all’ospedale di Zingonia, Anna è stata richiamata dal medico, che è andato dritto al punto: «Signora, si sieda e mi ascolti: lei ha due tumori, uno dei quali è grosso e aggressivo, dovremo toglierle il seno e non so dirle se guarirà. Questa è la verità, quindi forza e coraggio», crudo e schietto al cento per cento.
Bene, cominciamo con l’elencare alcuni elementi che hanno favorito questo clima di paura.
In primo luogo l’Italia è uno dei Paesi con il maggior livello di sfiducia nei confronti delle sue istituzioni, siano esse governative, sanitarie o altro.
In secondo luogo la principale fonte di informazione per gli italiani sono ancora solo le televisioni, soprattutto i telegiornali, mentre poco spazio hanno programmi di approfondimento e giornali di settore; sempre maggiore spazio hanno invece le testate on-line, le quali riportano informazioni da fonti discutibili (se esistono fonti) e in questo clima di incertezza sempre più spazio hanno trovato anche i post di complottisti e immagini/video fake.
In ultimo, la scarsa voglia di cercare ulteriori informazioni e di approfondire di noi italiani ha aggiunto benzina sul fuoco.
Queste tre questioni, lavorando in sinergia, hanno permesso (a mio avviso) la diffusione di una malattia peggiore dello stesso virus in sé: una psicosi.
Lo studio prende poi in considerazione alcune cause della violenza di genere, prima fra tutte l’esistenza di modelli di maschilità egemonica. Viene ben spiegato, infatti, come la violenza non debba essere semplicemente associata a momenti di “follia”, a raptus, perdite di controllo, malattie mentali di ogni sorta, bensì come la causa di molta violenza vada ricercata nella normalità. Nella normalità di una maschilità obbligata, stretta, soffocante, una maschilità che non ammette nulla di diverso dalla versione idealizzata, forte – e anche un po’ violenta – di se stessa.
La ricerca sottolinea quindi come ci sia bisogno di lavorare sul maschile per risolvere i problemi sofferti dal femminile, come sia necessario che l’uomo, il maschio, entri a far parte di questo discorso, sia chiamato in causa, possa essere visto e vedersi, riflettere. Lo studio si concentra infatti, come dice il titolo, sulle rappresentazioni pubblicitarie a scopo commerciale e sociale della violenza contro le donne e degli stereotipi di genere. Ci terrei ora a parlare soprattutto delle campagne sociali.
Giornalisti e commentatori profani si soffermano spesso sui possibili effetti dannosi dei pervasivi social media e dei media digitali in generale. Parlano con cognizione di causa o si lanciano in allarmismi inutili? I media come influenzano il nostro comportamento e la nostra percezione della realtà? Ci fanno davvero “male”? Per rispondere a queste domande mi piacerebbe iniziare oggi un percorso che durerà qualche settimana: vorrei infatti esplorare con voi una parte piuttosto rilevante dei media studies, ovvero le teorie sugli effetti dei media.
[…]
La teoria ipodermica è una teoria pessimistica che ha fortemente influenzato il dibattito sui media, sino ai giorni nostri: non è raro infatti che personaggi pubblici di ogni sorta descrivano scenari apocalittici e affibbino la colpa di ogni nefandezza umana agli strumenti digitali.
La “bolla di filtraggio” è il risultato del sistema di personalizzazione dei risultati di ricerche su siti che registrano la storia del comportamento dell’utente. Questi siti sono in grado di utilizzare informazioni sull’utente (come posizione, click precedenti, ricerche passate) per scegliere selettivamente, tra tutte le risposte, quelle che vorrà vedere l’utente stesso. L’effetto è di escluderlo da informazioni che sono in contrasto con il suo punto di vista, isolandolo in tal modo nella sua bolla culturale o ideologica. Esempi importanti sono la ricerca personalizzata di Google e le notizie personalizzate di Facebook. Il termine è stato coniato dall’attivista internet Eli Pariser nel suo libro “The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You”, secondo cui gli utenti vengono esposti di meno a punti di vista conflittuali e sono isolati intellettualmente nella propria bolla di informazioni.
Dopo questa spiegazione introduttiva, per cui ringrazio Wikipedia, vorrei illustrarvi in breve modalità e conseguenze di questo sistema.
Martedì 14 maggio 2019, il Senato dell’Alabama ha approvato, con 25 voti favorevoli e 6 contrari, un progetto di legge che uccide completamente il diritto di scelta di una donna: no all’aborto. In ogni caso. O meglio, con una sola eccezione, ovvero quando la vita della madre è a rischio (e ci mancherebbe altro!). Ci tengo a farvi notare che l’aborto non è consentito nemmeno in caso di stupro.
Qual è la pena prevista per i dottori che trasgrediranno la legge? Potrebbero scontare fino a 99 anni di carcere. Insomma, una pena potenzialmente ben superiore a quella inflitta allo stesso stupratore.
Oggi parleremo di newsmaking, ovvero dei processi di produzione delle “notizie“, e cercheremo di capire come nulla di ciò che leggiamo/vediamo/sentiamo sia mai neutro e neutrale.
L’intero percorso di una notizia, dalla raccolta alla presentazione, è sottoposto a una distorsione involontaria (il cosiddetto unwitting bias), causata dalle routine interne alle organizzazioni dei media e dalle linee editoriali-politiche delle varie testate. […]
Titolo impegnativo, eh? Forse anche un po’ presuntuoso, disturbante, irritante. Esagerato?
Non lo so, oggi sono in vena particolarmente critica. Sono uscita da poco da una lezione di economia e un aneddoto raccontato dal prof mi ha messa sul piede di guerra: durante una conferenza organizzata dal comune (non specifico la città, non è importante) lui ha spiegato il funzionamento di alcune leggi, tassazioni, meccanismi economici al pubblico; al termine del suo discorso un signore ha alzato la mano e ha ribattuto dicendo: “Guardi, secondo me Lei sta sbagliando”. Poi si è lanciato in un infinito elenco di motivazioni per cui le affermazioni del prof sarebbero state cazzate. In questa lunga lista ovviamente non c’era un solo punto valido, erano solo luoghi comuni e slogan ripetuti a pappagallo.
Da qui nasce la mia riflessione di oggi, che può essere riassunta con una sola domanda: ma quanto siamo diventati arroganti?
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