Inizierò questa recensione dicendo che Not in Love è il romanzo di Ali Hazelwood che mi ha convinta di meno. Quando decido di leggere un romance è perché ho voglia di qualcosa di leggero, spensierato e divertente, e i romanzi precedenti dell’autrice erano così; questo un po’ meno.
All’inizio di Not in Love la Hazelwood ha inserito una nota in cui spiega che la protagonista, Rue, ha dovuto affrontare in passato (e continua a farlo) problematiche come disturbi alimentari e negligenza infantile da parte dei suoi genitori. L’unico modo che Rue conosce per cercare di superare queste difficoltà è attraverso il sesso, per questo motivo l’autrice ha voluto definire Not in Love come un romanzo erotico più che come un romance. In effetti il libro è pieno di scene spicy, forse un po’ troppe per i miei gusti.
Se da una parte capisco la profondità di alcune tematiche trattate, dall’altra parte ho trovato il romanzo pesante, forse quasi noioso in certi punti. […]
Kai Koch è uno stronzo, e lo è sempre stato. Un vero bastardo infame, che nella sua vita ha fatto e farà solo del male a tutti quelli che lo circondano. Purtroppo essere dei veri stronzi non è illegale e la giustizia non lo può punire. Ma Violetta Morgenstern può: e così Kai Koch una bella mattina finisce sotto un treno.
La sua giustiziera è una signora che ha superato i cinquant’anni, un’ex insegnante di scuola elementare ora in pensione che come passatempo elimina le persone dannose per la società. I farabutti, i maleducati, gli ingrati, i violenti… gli stronzi, insomma. E nel suo hobby è davvero brava, nulla da eccepire. Proprio questa sua qualità cattura l’interesse della Tell, un’agenzia supersegreta svizzera che, lavorando rigorosamente al di fuori di tutti i canali ufficiali, si occupa di “gestire” gli uomini e le donne che potrebbero rappresentare una minaccia per la nazione. E con “gestire” ovviamente intendo ammazzarli a sangue freddo, facendo passare queste morti per incidenti sfortunati. Inizia così la seconda carriera di Violetta. […]
Anton sa che dovrebbe smettere di accompagnare Ernestine nelle sue stravaganti gite, eppure proprio non riesce a dirle di no. Così quando per l’ennesima volta i signori Rosenstein le donano i biglietti per una vacanza – a questo giro si tratta di una breve crociera sul Danubio – i due pensionati partono insieme. E visto che non c’è due senza tre, anche questa volta ci scappa il morto.
Come nei romanzi precedenti, Ernestine e Anton si trovano circondati dall’élite dell’appena scomparso impero austro-ungarico e da personaggi di spicco di una contemporaneità tanto effervescente quanto caotica, tra cui nuovi imprenditori, psichiatri freudiani e presunte sensitive.
La vittima è il conte von Jesenky, un nobiluomo anziano, molto nostalgico dei “bei tempi andati” e terribilmente classista, che ha un pessimo rapporto con tutta la famiglia, in particolare con la nuora che considera un’arrampicatrice sociale. Ciò nonostante, Ernestine riesce fin da subito a conquistare le simpatie del vecchie, il che la rende ancora più curiosa di scoprire le cause della sua morte. Devo ammettere che, caso dopo caso, le capacità investigative della protagonista migliorano sempre più, e alla sua naturale perspicacia inizia ad aggiungere sempre più metodo e rigore. […]
La struttura di Morte in scena a Vienna, secondo romanzo giallo di Beate Maly ambientato nell’Austria degli anni Venti, è molto simile a quella del primo volume, Omicidio al Grand Hotel: dopo una scena d’apertura che si svolge diversi anni prima degli eventi principali, la storia si sposta sulla frizzantissima protagonista, Ernestine Kirsch, insegnante di latino in pensione, che ancora una volta ha ricevuto in regalo dai ricchi signori Rosenstein (al cui figlio dà ripetizioni) un paio di biglietti speciali. Questa volta per una serata a teatro. Infatti Ernestine, oltre ad amare ballare, adora anche l’operetta e la sua attrice preferita è Hermine Egger, che interpreta la protagonista dello spettacolo in questione. Come nel primo libro, i biglietti sono un pretesto per spostare Ernestine e il suo fedele amico Anton – che non sa dirle di no e l’accompagna ovunque – nella cerchia dell’alta società, dove nobili, imprenditori, attrici e militari nascondono i loro oscuri segreti sotto una facciata di perbenismo. L’ambiente perfetto per una donna curiosa come la protagonista, che da questi incontri non rimane mai delusa: un morto ci scappa sempre. […]
Dopo averla vista citata in parecchi corsi universitari, ho finalmente deciso di provare a conoscerla meglio attraverso i suoi scritti: bell hooks (pseudonimo rigorosamente minuscolo) è stata una scrittrice e attivista femminista di grande rilievo, una delle prime a parlare di intersezionalità di razza, genere e classe sociale – questione che riassume nelle densa locuzione di “patriarcato capitalista suprematista bianco”.
Questo libro si divide in due sezione.
La prima, Elogio del margine, è una raccolta di una manciata di brevi saggi su violenza razzista e sessista, politica, media ed estetica nera. Per hooks il margine è “la casa all’epoca della segregazione razziale, governata dalle donne nere come luogo di protezione dalla violenza razzista e di sviluppo di un senso del bello diverso dalla ‘grande arte’ dei bianchi”. I capitoli che ho trovato più interessanti sono proprio quelli dedicati allo spazio domestico come luogo di resistenza.
La seconda parte, Scrivere al buio, è invece una lunga intervista a bell hooks condotta da Maria Nadotti (che è anche la traduttrice della raccolta), in cui l’attivista riflette sugli argomenti a lei più cari partendo dalla sua storia personale. E così si parla di gruppi di autocoscienza, femminismo bianco e nero, di attivismo fortemente politico e pubblico, di scrittura e molto altro. […]
Credo che il modo migliore per descrivere questo libro sia proprio “reportage”, più che saggio o altro, perché Maselli è continuamente in viaggio, si sposta per la penisola interrogando imprenditori del mare, esponenti della marina militare e mercantile, marinai e abitanti dei luoghi, chiede delle tradizioni come la tonnara e raccoglie il punto di vista e le esperienze delle persone.
Nella prima parte dell’opera ci porta in alcuni territori affacciati sul mare ma che con il mare cercano di avere a che fare il meno possibile, con abitanti che da sempre con quella distesa d’acqua salata non hanno una bella relazione e con tradizioni che rispecchiamento questa inamicizia – un semplice esempio è la mancanza di piatti di pesce nella cultura culinaria di molte zone. Dalla Campania alla Sicilia, fino alla Sardegna: questi primi capitoli toccano il Sud e le Isole, con qualche accenno storico. Ammetto di averli trovati interessanti solo a tratti, come quando per diverse pagine vengono approfondite le tonnare.
Mi sono piaciuti di più i capitoli successivi, in cui racconta il particolare rapporto tra città “marinare” come Genova e Venezia con il Mediterraneo, e soprattutto la descrizione dei veneziani come “uomini di laguna” e non “di mare”.[…]
[…] Partiamo prima di tutto dai protagonisti, Vivi e Jonah. Entrambi hanno 17 anni e nonostante la loro giovane età hanno già vissuto e stanno tuttora vivendo momenti molto difficili: il padre di Jonah è morto circa 6 mesi prima l’inizio del libro, e da allora sua madre è piombata in una grave depressione, costringendo il ragazzo a occuparsi della casa, del ristorante di cui il padre era proprietario e dei suoi fratelli minori; anche Vivi viene da un periodo molto buio e, nonostante il suo apparente costante buonumore, in realtà nasconde grandi fragilità.
Tra i due protagonisti, nonché narratori, ho preferito sicuramente Jonah, infatti – pur non avendomi conquistata – devo dire di aver apprezzato la sua dolcezza, la sua bontà e il suo sconfinato altruismo. Vivi, al contrario, mi ha profondamente irritata: è fin troppo esuberante per i miei gusti, spesso infantile nei modi di fare e brusca con Jonah. Secondo me il rapporto tra i due si è sviluppato troppo in fretta, ho fatto fatica a capire perché si siano innamorati. Ho percepito la loro relazione più come un’inevitabile attrazione dovuta alle circostanze che non come un amore consapevole. […]
Dopo 14 anni dall’uscita dell’ultimo capitolo della saga Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo, Rick Riordan torna a deliziarci con una nuova impresa che vede protagonisti i nostri tre eroi preferiti, ovvero Percy, Annabeth e Grover.
Percy, ormai quasi diciottenne, è pronto ad affrontare un nuovo capitolo della sua vita: andare all’Università di Nuova Roma insieme ad Annabeth. Gli viene però comunicato che, in quanto figlio proibito di Poseidone, per essere ammesso deve prima riuscire a portare a termine tre imprese su richiesta di tre diverse divinità. In questo primo capitolo di quella che sarà una trilogia, a Percy viene affidato il compito di recuperare il calice di Ganimede, cioè una coppa magica capace di trasformare in immortale chiunque la usi per bere, coppa che è stata rubata. Con questo libro Riordan torna alle origini, non solo perché al centro ritroviamo il trio di partenza, ma anche per il tipo di impresa da compiere che ricorda molto quella de Il ladro di fulmini, ovvero la ricerca di un oggetto divino scomparso.
Come sempre la scrittura di Riordan è ottima: dinamica, coinvolgente, ironica. Ho apprezzato molto la decisone dell’autore di riportarci nella testa di Percy con una narrazione in prima persona, che risulta quindi essere ancora più appassionante e divertente; come sempre la “stupidaggine” di alcuni pensieri di Percy mi ha strappato più di un sorriso. […]
Premessa: ho letto questo libro quando è uscito, a settembre 2023, quindi ormai sei mesi fa. È un testo molto interessante ma anche molto legato all’attualità, per questo alcuni elementi “invecchiano” piuttosto in fretta; tuttavia, anche se so che oggi il focus internazionale si è in parte allontano da questi temi, mi sento di consigliarne comunque la lettura, poiché – nonostante alcune notizie siano ormai datate – le testimonianze che porta non hanno una scadenza, ma anzi rimangono sempre di grande valore.
In questo reportage la giornalista Cecilia Sala racconta di una generazione che, pur vivendo in tre diversi Stati, si trova legata da un fil rouge: i protagonisti sono infatti quei ragazzi e quelle ragazze che oggi hanno tra i venti e i trent’anni in Ucraina, Iran e Afghanistan e che, in modi diversi, si ritrovano ad affrontare una “rivoluzione”. Sono loro che hanno tra le mani il futuro del proprio Paese.
L’autrice riprende molte delle storie che ha raccolto nei suoi viaggi e che ha già proposto nel podcast Stories, che seguo; per questo in alcuni casi ho avuto un po’ una sensazione di già visto, problema che ovviamente non si pone per chi non ascolta la serie. Lo stile narrativo è molto simile a quello che usa sempre: chiaro, crudo, diretto, breve. Spiccio, ma d’impatto. A me piace molto, colpisce nel segno. […]
[…] Let’s start with the two protagonists, that is to say the ice skater Anastasia Allen and the captain of the hockey team Nate Hawkins.
She is – as Nate would say – a force of nature: Anastasia is a dreamer, but one who keeps her feet on the ground. She knows that to become a great ice skater she has to work really hard; she is extremely well-organized, super focused on her goals and she always gives her best. She’s passionate, strong, but also a bit stubborn and bossy. She practises an individual sport (it doesn’t really matter that she has a skating partner), so she is used to relying only on herself.
Nate shares the same kind of passion, but has a different approach to life. He’s – as Anastasia describes him – a fixer and a protector. He feels that he’s responsible for his whole team and therefore he acts like a big brother to them; he’s always willing to help and he would never leave anyone he loves behind.
I really liked how the author highlighted the differences and the similaties between Nate and Stassie throughout the book, and how important it was for Nate himself to understand them. […]
[…] Questo romanzo non si focalizza molto sugli avvenimenti storici, quanto piuttosto su come li vive la stessa Elisabetta, costretta a un matrimonio senza amore con un uomo che considera suo nemico, e immersa in un ambiente che continua a tramare rivolte e cambi di vertice.
Elisabetta sposa il re, viene incoronata regina, partorisce il futuro re, principi e principesse reali… eppure continua a rimanere impotente, inascoltata quando avrebbe consigli utili da dare al marito, ignorata o addirittura guardata con sospetto. La principale ragione di questa sua estromissione forzata da ogni forma di potere è la madre del re, Margaret Beaufort, una donna fredda, calcolatrice, fervente religiosa che non vede né sente altra ragione se non la propria. Lei vuole a tutti i costi essere la donna più importante del regno e non lascia alla nuora alcuno spiraglio per emergere.
Ho apprezzato molto che l’autrice abbia deciso di raccontare la storia attraverso le vicende e le macchinazioni delle donne che sono state intorno e contro Henry VII: sua madre, sua moglie, sua suocera e infine la moglie del suo nemico, di cui si innamora. […]
“Every Summer After” mi ha ricordato molto “The Summer I Turned Pretty” per trama, personaggi e atmosfere.
Qui il “luogo felice” della protagonista è una casa al lago (e non al mare), dove trascorre molte estati della sua adolescenza in compagnia dei due ragazzi che vivono nella baita accanto.
Persefone Fraser (Percy per gli amici) è una ragazzina un po’ insicura con una grande passione per l’horror e la scrittura; i due fratelli Florek invece sono molto diversi tra loro: Charlie, il maggiore, è bellissimo e un po’ strafottente; Sam, il minore, è un intellettuale abbastanza impacciato ma ricco di sorprese. Tra incredibili traversate del lago, serate trascorse a lavorare nel ristorante di mamma Sue Florek e maratone di film dell’orrore, tra Percy e Sam nasce un’amicizia profondissima che si trasforma piano piano in qualcosa di più… […]
La terza media sta per iniziare e la professoressa Maria (è il cognome, come chiarisce subito la protagonista) ha chiesto ai suoi alunni di scrivere un tema per raccontare se stessi e la propria famiglia. Questa richiesta manda Fairùz, voce narrante e personaggio principale di questo libro, un po’ nel pallone: come può spiegare la sua storia senza risultare troppo “strana”? Da dove partire? Cosa la definisce di più? Eh già, perché la sua identità non è chiarissima nemmeno a lei: italiana di origini arabe (il papà è giordano, la mamma palestinese ma nata in Kuwait…), musulmana, un po’ timida, il suo nome significa turchese (come il colore e la pietra), ha un fratello, due sorelle (una molto gentile, l’altra non troppo)… quali di questi elementi sono più importanti? Tutto il libro è un viaggio alla scoperta di se stessa, un percorso per rispondere alla domanda “chi sono io?”. […]
Questo libro riporta i risultati di un ricerca qualitativa condotta tramite interviste con madri che si definiscono “pentite”. Non credo abbia senso scrivere una vera e propria recensione di un saggio del genere, perciò mi limiterò a mettere in risalto alcuni punti che ritengo particolarmente rilevanti e che aiutano a riflettere sulla condizione di madre.
1. Le donne intervistate dalla sociologa Orna Donath sono pentite della maternità, non dei propri figli, ovvero: odiano lo stato di madri e preferirebbero non essere mai diventate madri, ma non odiano i propri figli. Può risultare difficile da comprendere, ma è importante. Per semplificare molto: vorrebbero che i figli non fossero mai nati e sarebbero contente se potessero farli sparire come per magia, ma non vorrebbero ucciderli. Non stiamo parlando di potenziali assassine, bensì di donne che non vogliono i figli che purtroppo hanno. […]
Anche in questo romanzo non mancano i marchi di fabbrica di Ali Hazelwood: ambientazione nell’universo STEM, un protagonista maschile davvero enorme (e dal cuore di panna), una storia d’amore enemies-to-lovers coi fiocchi. Gli ingredienti ci sono tutti, e come sempre funzionano bene.
La protagonista di questo romanzo si chiama Elsie, è una professoressa di fisica a contratto e nella vita di tutti i giorni… arranca per stare a galla. In tutti i suoi libri l’autrice accenna alle difficoltà economiche di chi lavora nel mondo accademico, ma in questo volume ha deciso di trattare il tema in modo più esteso, sottolineando più volte la precarietà della condizione di Elsie e rendendo il suo personaggio una sorta di manifesto contro questa situazione. Lavoro a parte, la protagonista ha anche un’altra caratteristica piuttosto rilevante: non riesce a fare a meno di compiacere gli altri; è brava a leggere il “pubblico” che le sta di fronte e cerca sempre di dare agli altri la versione di lei che preferiscono. […]
[…] Concentriamoci però ora sul capitolo finale della trilogia The Last Hours, degna conclusione di una saga che mi ha convinta pienamente fin dall’inizio. Un primo punto di forza del romanzo (e più in generale di tutta la trilogia) è la semplicità della trama: fin da subito la Clare ha costruito una storia chiara, ma non per questo noiosa o eccessivamente prevedibile. Ho apprezzato anche la scelta di mettere spesso al centro le relazioni tra i personaggi, infatti proprio come nei due precedenti romanzi anche in questo la scrittrice ci regala un’abbondante dose di romance… e a una romanticona come me ciò non può che piacere! […]
Agatha Christie nel 1926 sparì per dieci giorni. Polizia, giornali e pubblico si mobilitarono per ritrovarla. La versione ufficiale dice che soffrì di amnesia e si allontanò da casa. La versione non ufficiale (ma poi non così improbabile) di Marie Benedict invece racconta di una donna geniale che mette in piedi un piano perfetto per incastrare e punire il terribile marito (per di più adultero) che per anni l’ha fatta soffrire. In questo romanzo l’autrice avanza una spiegazione che tiene conto di Agatha Christie come donna, ma anche e soprattutto come mente sopraffina in grado di creare le più brillanti trame poliziesche della storia del giallo. […]
Enniscorthy, anni Cinquanta: in questa cittadina irlandese non c’è lavoro per nessuno, e Eilis Lacey non ha davanti a sé grandi prospettive per il futuro. È una giovane donna brava a far di conto, paziente e senza particolari guizzi nelle sue giornate. La sorella maggiore Rose, suo modello quasi irraggiungibile di perfezione, lavora come contabile, mentre i fratelli maschi sono tutti emigrati in Inghilterra per cercare lavoro. Per Eilis arriva però un’opportunità inaspettata: Padre Flood le ha trovato un posto di lavoro e un alloggio negli Stati Uniti. È arrivato il momento di partire e scoprire una nuova vita. […]
Le camere a gas non sono mai esistite; sei milioni di ebrei non sono mai morti – sono solo emigrati; il Diario di Anna Frank è un falso; l’Olocausto è un’invenzione dei sionisti. Queste sono alcune delle posizioni sostenute dagli autori “revisionisti” – come si descrivono loro – della Shoah. Per il resto del mondo sono semplicemente dei negazionisti (un po’ complottisti, perché dove c’è negazione il ricorso al complotto si rivela sempre necessario). Quest’anno per la Giornata della Memoria ho deciso di preparare un articolo un po’ diverso dal solito: non parleremo infatti di un romanzo a tema, bensì di un saggio – L’irritante questione delle camere a gas di Valentina Pisanty […]
[…] Nello stesso periodo ho, invece, visto i candidati delle altre liste in corsa per il mio comune (ma anche per altri paesi) e ho notato diversi nomi di giovani (e giovanissimi) che conoscevo. Ragazzi e ragazze che però non si erano mai attivati precedentemente per questioni politiche né sociali o civili. Addirittura ragazzi che, pur essendo in lista, non si sono mai pronunciati su alcun argomento perfino durante la stessa campagna elettorale. Insomma, sono stati dei fantasmi, nulla più di un nome su un foglio. Devo ammettere di aver apprezzato che la mia lista, dopo il mio rifiuto, non si sia messa disperatamente a cercare un “gggiovane” con cui sostituirmi, perché ai ragazzi e alle ragazze la politica deve dare spazio, ma non deve trasformarli in simboliche belle statuine da spendere solo in campagna elettorale… E dopo questa mia breve introduzione, passo la palla a Emme, che oggi vi spiega il fenomeno del tokenismo. […]
[…] Una serie di lunghe peripezie sono l’occasione perfetta per portare alla nostra attenzione tanti timori e tanta rabbia che i personaggi – e gli stessi spettatori americani, suppongo – si tenevano dentro: Ruzek può in qualche modo prendersi parte della colpa delle azioni di poliziotti bianchi e razzisti solo perché è bianco? La comunità nera può ritenere qualunque poliziotto bianco almeno in parte responsabile? E sono tutti razzisti? E uno come Rusek – che, lo sa pure Atwater, poco ma sicuro non è razzista nemmeno un po’ – cosa dovrebbe fare per stare nel giusto? La colpa dei padri ricade sui figli? (O, in questo caso, forse è meglio dire: la colpa della nostra comunità ricade su ognuno di noi?). L’accesa discussione tra i due amici – Adam e Kevin – è sconvolgente al punto giusto, struggente, vera. […]
Professionismo e stereotipi di genere
nel book influencing femminile
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